Il tema dei dazi di Donald Trump, neoeletto presidente americano, domina le prime pagine di tutti i giornali del mondo. Prima annunciate in campagna elettorale, poi ribadite e attualmente in corso di definizione o applicazione, le misure protezionistiche che gli Stati Uniti intendono introdurre per tutelare le produzioni nazionali americane dalla concorrenza straniera inquietano i Paesi esportatori vicini, come Canada e Messico, nonché l’Unione Europea e la Cina.
Già nel corso del suo precedente mandato Trump aveva fatto uso dell’arma dei dazi, sia pure con intensità e modalità diverse e con un approccio “mirato” su particolari prodotti. Oggi, forte del consenso della “pancia” dell’America, Trump intende utilizzarli più massicciamente ed estensivamente, nonché come arma negoziale, ad esempio per convincere l’Europa a comprare più gas naturale liquefatto o tecnologie dagli Stati Uniti. Né Trump sembra preoccupato più di tanto del rischio che una guerra commerciale possa portare ad un aumento dei prezzi per i consumatori americani. Il presidente-tycoon sembra voler andare avanti diritto per la sua strada. Le prime misure hanno riguardato l’acciaio, l’alluminio, la Cina, mentre sulle teste di Messico e Canada pende, tra annunci e rinvii, la spada di Damocle dei dazi americani, che seppelliranno, di fatto, il vecchio NAFTA (North American Free Trade Agreement). L’Europa è nel mirino e sta cercando la via diplomatica per contenere l’offensiva protezionistica degli Stati Uniti.
Ma quali sono i principali Paesi fornitori degli Stati Uniti? Quali i rischi per l’Italia dalla possibile introduzione dei nuovi dazi americani? Quali sono i più importanti prodotti che l’Italia esporta verso gli Stati Uniti?
I principali Paesi esportatori verso gli Stati Uniti
Se guardiamo ai dati del 2023, dal lato delle importazioni degli Stati Uniti (figura 1), su un totale di importazioni statunitensi per 3.173 miliardi di dollari, possiamo osservare che i primi tre fornitori dell’America sono di gran lunga Canada, Cina e Messico, con, rispettivamente, 480, 448 e 431 miliardi di dollari. Una buona parte delle importazioni USA da tali Paesi è il frutto delle delocalizzazioni produttive operate negli anni dalle stesse multinazionali americane, come nel caso della telefonia cellulare o dell’automotive, nel quadro del NAFTA. Di conseguenza, nell’introduzione di nuovi eventuali dazi, Trump dovrà trovare il modo di conciliare pragmaticamente la sua ideologia dell’ “American First” con gli interessi dei potentati economico-finanziari degli Stati Uniti, per evitare di danneggiare le stesse aziende a stelle e strisce.

Messico e Canada hanno visto rimandare di qualche tempo l’applicazione delle annunciate misure protezionistiche, che sono invece già partite verso la Cina, la quale ha per ora risposto con contromisure abbastanza blande, nel chiaro intento di frenare più che far esplodere una guerra commerciale.
L’Europa resta in attesa di ciò che potrà succedere. I principali Paesi dell’Unione Europea fornitori degli Stati Uniti sono la Germania con 163 miliardi, l’Italia con 75 miliardi e la Francia con 59 miliardi. L’import complessivo degli Stati Uniti da questi tre Paesi, pari a 297 miliardi, non raggiunge nemmeno quello del solo Canada.
Per quanto riguarda il disavanzo commerciale degli Stati Uniti, esso è stato nel 2023 pari complessivamente a 1.153 miliardi di dollari. Il deficit maggiore degli USA è con la Cina, per 300 miliardi di dollari, seguita dal Messico per 157 miliardi e dal Vietnam per 109 miliardi. La Germania è il quarto Paese per importanza con cui gli Stati Uniti presentano un disavanzo commerciale, per 86 miliardi (di cui poco meno di 20 miliardi costituiti da autovetture di media ed alta cilindrata, nonché in minor misura elettriche), seguito dal Canada, per 78 miliardi e dal Giappone, per 75 miliardi. Il deficit degli Stati Uniti con l’Italia è soltanto l’undicesimo per importanza, per 46 miliardi di dollari.

Da tutti questi dati, appare evidente che non sarà certamente un ridimensionamento delle importazioni dall’Unione Europea la chiave di volta per riequilibrare lo squilibrio commerciale con l’estero degli Stati Uniti. Ma Trump, nel linguaggio che gli è caratteristico, ha già annunciato che anche l’Europa “dovrà pagare i dazi” perché “maltratta” gli Stati Uniti.
I rischi dei nuovi dazi americani per l’Italia
La questione dei dazi minacciati da Trump è al centro del dibattito anche in Italia, con intonazioni che vanno dall’allarmismo alla cautela, dal panico fino a un cauto ottimismo di chi crede che il Made in Italy alla fine supererà comunque anche questa tempesta. Il possibile impatto dei dazi va visto da diverse angolature e può essere valutato come più o meno preoccupante: dipende molto dai settori e dai prodotti considerati.
Ovviamente, il rischio di un innalzamento delle barriere protezionistiche americane non può non preoccupare un Paese forte esportatore come l’Italia e che ha negli Stati Uniti il secondo mercato per valore dell’export (dietro la Germania e davanti alla Francia) e il primo Paese in assoluto per surplus commerciale con l’estero. Nel 2023 l’Italia ha esportato negli Stati Uniti merci per 72,7 miliardi di dollari con un attivo bilaterale a nostro favore di ben 45,5 miliardi di dollari (il nostro secondo più alto è quello con il Regno Unito, per 18,7 miliardi e il terzo quello con la Francia, per 18,1 miliardi).
Vi sono possibili conseguenze dei dazi di Trump di carattere globale. Lo scatenarsi di una guerra commerciale tra USA, Cina ed Europa potrebbe avere pesantissime ricadute sul commercio mondiale con aumenti dei prezzi a cascata delle materie prime, dei semilavorati, della componentistica e dei prodotti finiti. La crescita dell’economia mondiale potrebbe rallentare. L’Europa, in particolare, teme di essere schiacciata tra Stati Uniti e Cina. Infatti, se la Cina fosse colpita pesantemente dai dazi di Trump, un possibile rischio sarebbe che essa dirotti verso l’Europa gran parte delle sue eccedenze produttive. Vanno inoltre considerate le eventuali ripercussioni negative sulle singole economie e tutti i Paesi hanno cominciato a fare i conti sui probabili costi delle misure protezionistiche che gli Stati Uniti intendono applicare.
Alcune istituzioni hanno tentato di stimare il possibile impatto specifico dei nuovi dazi di Trump sull’export e sull’economia italiana. Prometeia, ad esempio, ha simulato due scenari. Secondo quanto riportato da “Il Sole 24 Ore”, il primo di tali scenari prevede un aumento di 10 punti percentuali limitato a quei prodotti che già oggi sono sottoposti a dazi e nessuna tassa per quelli che sono invece esenti. Dal punto di vista settoriale, in questo scenario a essere maggiormente colpito sarebbe il sistema moda, insieme all’agroalimentare uno dei più esposti del made in Italy. Il secondo scenario simula invece un aumento tariffario generalizzato di 10 punti per tutti i prodotti importati dagli Stati Uniti. In tal caso, sarebbe la meccanica a subire più negativamente le conseguenze del nuovo protezionismo. Per il nostro export l’aggravio sarebbe di 4,12 miliardi di dollari col primo scenario, che salirebbero a 7,20 miliardi col secondo. Che si andrebbero a sommare a un valore di dazi sul mercato Usa già pari a quasi 2 miliardi di dollari nel 2023 (il 2.5% di quanto esportato negli Stati Uniti).
Anche la Svimez ha elaborato alcune stime del possibile impatto dei dazi USA sull’economia italiana, per conto dello stesso “Sole 24 Ore”. Secondo il quotidiano, “l’ipotesi di nuovi dazi commerciali degli Stati Uniti nei confronti delle merci europee, rilanciata con veemenza dal presidente Donald Trump, potrebbe pesare, in uno scenario intermedio, 3,8 miliardi di euro del Pil nazionale e 5,8 miliardi di euro dell’export verso gli Usa. Con una ricaduta in termini di posti di lavoro di oltre 53 mila unità lavorative per anno”.
Queste analisi rischiano però di essere troppo rigide nelle loro ipotesi e conclusioni e non tengono conto delle possibili variazioni comparate della competitività dei Paesi fornitori degli Stati Uniti, né del possibile apprezzamento del dollaro (che consentirebbe di assorbire parte dell’effetto dazi), né del fatto che alcuni beni non sono prodotti negli Stati Uniti e che gli americani dovrebbero comunque comprarli da altri Paesi. Ad esempio, una imposizione di dazi su valvole in ottone ad alto contenuto tecnologico che gli americani non producono non penalizzerebbe i produttori italiani che sono all’avanguardia in questo settore.
Inoltre, le esportazioni italiane presentano caratteristiche e una varietà tali da poter risentire meno di quelle di altri Paesi dell’innalzamento dei dazi americani, anche in termini di rigidità della domanda alle variazioni di prezzo, come nel caso delle Ferrari, dei super yacht, dei gioielli, dell’abbigliamento di alta moda e delle calzature di pregio in pelle. Secondo alcuni analisti finanziari, ad esempio, Ferrari probabilmente Ferrari sarebbe in grado di trasferire facilmente al consumatore una tariffa anche del 10%, 20% o 30%, per via del target del cliente a cui si rivolge. In altri termini, anche se Trump dovesse mettere sulle auto provenienti dall'Europa dazi fino al 30%, i clienti di Ferrari continuerebbero ad acquistare il veicolo, perché Ferrari è meno sensibile alle tariffe rispetto alla maggior parte dei concorrenti. Diverso sarebbe il caso di Porsche che avrebbe più difficoltà a trasferire i maggiori costi ai consumatori. Potrebbe riuscirci fino al 10% di eventuali dazi USA, ma non appena la quota si alzasse potrebbero sorgere problemi. Porsche potrebbe appoggiarsi alla casa madre Volkswagen, che ha già stabilimenti negli Stati Uniti e della capacità inutilizzata in loco. Ma vi sarebbero comunque investimenti molto rilevanti da fare da parte della casa tedesca.
Maggiori preoccupazioni per i produttori italiani vi sono in settori come l’alimentare ma anche in questo caso con differenziazioni da prodotto a prodotto. E bisognerebbe altresì considerare che la grande comunità italiana presente in America difficilmente rinuncerebbe ad alcuni prodotti tipici del made in Italy come formaggi, prosciutti e vini pregiati anche se i prezzi, già alti peraltro, dovessero ulteriormente aumentare per effetto dei dazi. Lo stesso vale per le classi americane più agiate e la ristorazione di alto livello che sono consumatrici di questi prodotti. Un discorso che vale perfino per le acque minerali, dove alcuni marchi italiani sono diventati addirittura dei prodotti simbolo per gli statunitensi. I timori per i dazi americani hanno perfino messo in moto anche fenomeni di accaparramento preventivo da parte degli importatori e grossisti americani, specie nel settore alimentare. Inoltre, diverse aziende alimentari italiane più rivolte al grande consumo già sono presenti con attività produttive negli Stati Uniti e i dazi potrebbero perfino avvantaggiarle.
Le preoccupazioni e i toni variano anche tra le diverse associazioni di rappresentanza. Un caso emblematico è quello dei formaggi. Assolatte ha recentemente ricordato che l’Italia è il primo esportatore mondiale di formaggi verso il mercato statunitense. Con 37.000 tonnellate, e un controvalore che supera i 440 milioni di euro, l’Italia copre il 20% delle importazioni casearie americane complessive. La domanda di made in Italy negli Usa è sostenuta soprattutto da Grana Padano, Parmigiano Reggiano e Pecorino. Questi 3 formaggi, sottolinea Assolatte, rappresentano da soli l’80% dell’export italiano del comparto negli Stati Uniti. E un nuovo record è stato raggiunto nei primi 7 mesi del 2024: +16,7% in volume e +13% in valore. Recuperare le quote perse in occasione dei precedenti dazi introdotti durante la prima presidenza Trump è costato molto lavoro e ingenti investimenti, quindi le preoccupazioni non mancano.
In una recente intervista al “Resto del Carlino” il Presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano, Nicola Bertinelli, ha dichiarato a proposito dei dazi minacciati dall’America: “Devono spaventarci, sarebbe da irresponsabili non prendersene cura”. Bertinelli ha ricordato che “la nostra quota export verso gli Usa è oltre il 22%, pari a più di 14.000 tonnellate. E il rischio è che vengano presi provvedimenti di tutela che influenzino il mercato colpendo in maniera indiscriminata anche chi, come noi, copre circa il 7,5% del mercato dei formaggi a pasta dura negli States. Il Parmigiano Reggiano viene venduto a 20 dollari a libbra, a differenza dei 10 dollari a libbra dei parmesan. Negli Usa chi compra il nostro formaggio fa una scelta consapevole perché ha un 93% di mercato di alternative che costano la metà. Imporre dazi al nostro prodotto aumenterebbe in realtà solo il prezzo per i consumatori, senza proteggere i produttori locali. Inoltre, aumenterebbe pure l’inflazione negli Stati Uniti, quando il governo Trump ha dichiarato di volerla ridurre”. E Bertinelli ha aggiunto: “L’Europa unita deve negoziare. Siamo ottimisti perché crediamo che questa politica di Trump non abbia le gambe per andare avanti e si dovrà trovare una contropartita per alleggerire i dazi. L’Italia può essere il ponte tra Unione Europea e Usa”. In che modo? Spiega Bertinelli: “I farmers americani in difficoltà vengono pagati 28 centesimi al litro, noi abbiamo il latte più valorizzato e pagato del mondo. Ci sono produzioni speciali di formaggi a pasta cruda in Wisconsin, Massachussetts e Vermont. Faremo in modo che vengano riconosciuti e tutelati in Europa e, perché no, promossi con un’etichettatura chiara e trasparente. Vogliamo lavorare con le istituzioni, le associazioni e le imprese statunitensi per supportarli. A patto, però, che ci sia una reciprocità di imposizione e riconoscimento per il Parmigiano Reggiano”.
In una precedente intervista a “Italia Oggi” il direttore del Consorzio del Parmigiano Reggiano, Riccardo Deserti, a proposito dei nuovi dazi aveva altresì ricordato che “durante il primo mandato di Trump venimmo colpiti per una questione, quella di Boeing – Airbus, che non ci riguardava. Oggi non li temiamo; siamo attrezzati, anche se sarebbe meglio non ricorrere a misure protezionistiche che finirebbero per danneggiare solo i consumatori americani”. E riguardo al mercato USA aveva comunque affermato: “Confidiamo di crescere al ritmo del 5% l’anno nel prossimo triennio”.
Anche nel settore della metalmeccanica non mancano timori, dato che i margini delle imprese in diversi comparti, come ad esempio nelle macchine movimento terra o nei metalli e materiali compositi, già si sono molto ridotti nell’ultimo periodo e le misure protezionistiche potrebbero perciò avere un impatto pesante. In altri comparti, invece, i dazi sono meno temuti, come ad esempio nelle macchine per imballaggio, dove la tecnologia italiana è così avanti rispetto a quella delle imprese americane da costituire un fattore competitivo determinante e poco influenzato dal prezzo.
I principali prodotti italiani esportati negli Stati Uniti
Premesso che mentre scriviamo lo scenario del possibile impatto dei dazi di Trump sull’economia e sul commercio estero italiano è ancora tutto da decifrare. Premesso pure che molti settori del made in Italy sperano che, anche qualora gli Stati Uniti introducano misure protezionistiche a largo raggio contro l’Europa, i buoni rapporti attualmente esistenti tra l’amministrazione Trump e il Governo italiano possano comunque portare ad un trattamento di riguardo verso il nostro Paese, presentiamo in quest’ultima parte del nostro articolo uno spaccato dettagliato dei principali prodotti che gli Stati Uniti importano dall’Italia.

La tabella allegata permette di apprezzare alcune caratteristiche tipiche del nostro commercio verso gli USA. La prima caratteristica è l’elevata differenziazione dei nostri prodotti diretti negli Stati Uniti, che spaziano dalla farmaceutica all’auto, dalla cantieristica all’alimentare, dalla moda alla meccanica. Il che potrebbe attutire l’impatto di una eventuale imposizione di dazi mirati americani su specifici prodotti. La seconda caratteristica è la presenza nell’export del made in Italy verso gli Stati Uniti di un notevole numero di beni a domanda rigida, di lusso o esclusivi, che potrebbero risentire meno di rialzi dei prezzi dovuti ad eventuali dazi, dalle autovetture sportive di lusso, ai superyacht, all’alta moda, ad alimentari e vini di alta gamma. La terza caratteristica è che l’import degli Stati Uniti dall’Italia è spesso costituito da prodotti, come nel caso della farmaceutica o dell’elettronica e Ict, provenienti da multinazionali americane che hanno investito in siti produttivi nel nostro Paese alla ricerca non di vantaggi competitivi opportunistici sul costo del lavoro come è il caso di molti investimenti statunitensi in Asia o America Latina oppure motivati dalla ricerca di vantaggi fiscali come in Irlanda, bensì per ragioni di efficienza produttiva e innovazione tecnologica.
Verso questo tipo di beni è abbastanza logico pensare che l’amministrazione Trump non si accanirà perché rischierebbe di “punire” importanti aziende americane che hanno scelto l’Italia come partner strategico per rafforzare la propria leadership internazionale. Come messo in evidenza da un recente studio del Centro Studi Confindustria (La nuova politica commerciale degli Stati Uniti: scenari e canali di trasmissione. I settori e i prodotti europei e italiani più a rischio, febbraio 2025), “le multinazionali americane sul territorio italiano sono le prime per numero di occupati (più di 350mila nel 2022), contribuendo per più di un quinto al valore aggiunto nazionale e alla spesa in ricerca e sviluppo. La presenza delle multinazionali USA è particolarmente importante nella manifattura italiana, dove sono concentrati più di 110mila addetti. Nel comparto elettronico e ICT, il 90% delle multinazionali extra-UE è di proprietà USA”. E, aggiunge lo studio del CSC Confindustria, nel caso dei prodotti chimici e farmaceutici, “la presenza di legami produttivi attraverso imprese controllate negli USA da quelle europee e in Europa da quelle americane potrebbe essere un buon deterrente alla politica commerciale restrittiva da parte dell’Amministrazione Trump. Infatti, più del 70% dello stock di capitali investiti dalle imprese UE nei paesi extra-Ue è diretto alle imprese farmaceutiche americane; la quota è la stessa per le multinazionali farmaceutiche tedesche mentre quelle italiane arrivano a sfiorare il 90%. Gli Stati Uniti sono una destinazione rilevante degli investimenti delle multinazionali italiane anche nei settori degli altri prodotti manifatturieri (più del 50% di quelli extra-UE), degli alimentari e delle bevande, delle apparecchiature elettroniche e ICT (più di un terzo) e, infine, dei prodotti chimici e dei metalli di base (circa un quarto).
Saranno sufficienti questi elementi per “schermare” il made in Italy dai dazi minacciati da Trump? Lo sapremo solo nei prossimi mesi. Ma, ad avviso di chi scrive, una razionale speranza, è meglio dei catastrofismi imperanti sui media italiani in queste settimane.